Il Sipario degli Anni

Forma I – Il sipario

Arrivai con un’attesa silenziosa, il bordeaux della mia camicia che emanava una sua luce propria sotto la lampada fioca del bar. Un primo bicchiere è sempre una sorta di spettacolo — una scena preparata non con scenografie, ma con possibilità. Due persone che si incontrano, due vite che si allineano per un breve atto. Eppure, prima ancora che il dialogo cominciasse, calò un sipario. Non il velluto pesante del teatro d’opera, ma il tessuto invisibile degli anni. Lo si chiamò un abisso, come se poche stagioni potessero spalancarsi come un burrone. L’età divenne il sipario tirato troppo presto, chiudendo la rappresentazione prima che il primo atto trovasse il suo ritmo.

Ci sono incontri che non iniziano mai davvero. A volte, avant même che le parole prendano forma, un unico pensiero sorge come un muro: Età. Come se pochi numeri potessero trasformare un tavolo da bar in un precipizio. Quella sera, il sipario calò prima ancora che la scena si illuminasse. Non velluto, ma abitudine. Non grandiosità, ma scuse educate. Eppure, tutti sanno che il tempo non è un muro: ci sono giovani che portano già la stanchezza dei vecchi, e anziani che brillano ancora come estati. Eppure, scelse la sicurezza del sipario, invece del rischio della curiosità.

Ci sono sipari che calano troppo presto. Un bicchiere, un incontro, e già il tempo viene evocato come barriera. Anni. Non stagioni vissute insieme, ma numeri pronunciati come condanna. Nel teatro interiore che speravo di aprire, il sipario scese prima che l’orchestra potesse attaccare la prima nota. Avrei voluto che gli anni fossero ricchezza — differenza come armonia, non distanza. Ma lui vide un burrone dove io vedevo solo la possibilità di un ponte. E così il sipario segnò la fine, senza che ci fosse mai stato davvero un inizio.

Forma II – Silenzio e racconto

La serata si svolse in modo diseguale. Parlava a lungo, senza pause — ombre del suo passato, ferite portate dagli anni di studente. Raccontava aggressioni, tradimenti, un catalogo di episodi oscuri che risuonavano più forti della musica soffusa del locale. La sua voce riempiva l’aria come un’aria provata troppe volte, non rivolta a un dialogo ma a un esorcismo.

Io ascoltavo, come si ascolta una partitura già sentita troppe volte. Quando venne il mio turno, provai a parlare del mio mondo — l’architettura fragile del mio sito, le visioni che custodisco per il futuro, le notti trascorse a modellare parole per dar loro durata. Eppure le mie frasi scivolarono inosservate nel silenzio, come didascalie ignorate da un attore deciso a tenere il riflettore per sé.

Non era un duetto, né un dialogo. Era un assolo. E io, più spettatore che compagno di scena, compresi che il silenzio era diventato la mia unica battuta. Un silenzio non scelto, ma imposto. Un ruolo scritto con inchiostro invisibile, mai citato nel libretto.

Parlava a lungo, come chi crede che le parole possano scacciare i propri fantasmi. Storie di gioventù, di prove, di ombre che lo avevano segnato. E io ascoltavo. Sembrava di assistere a una prova privata: il testo già noto, le intonazioni già fissate. Quando accennai ai miei progetti — il mio sito, i miei sogni di letteratura e di viaggio — le mie parole caddero nel vuoto, come se avessi parlato in una sala ormai vuota. Non era conversazione, ma confessione. Confuse il racconto con lo scambio. E io compresi che il silenzio restava il mio unico ruolo.

Parlava, parlava come chi vuole liberarsi e non condividere. Racconti di ferite, di ombre, di un passato che ancora gridava dentro di lui. Io restavo in ascolto, cercando di offrire spazio, come fa lo spettatore quando l’attore non lascia alcuna pausa. Provai a inserire la mia voce — il mio progetto, il mio futuro immaginato — ma cadde nel vuoto, senza eco. Non c’era dialogo, non c’era armonia. Solo un’aria cantata da una sola voce, mentre l’altra restava dietro le quinte, esclusa. In quel silenzio trovai la mia forma di resistenza: non interrompere, ma custodire la mia voce per altri palcoscenici.

Forma III – Il dono della chiarezza

Poi giunse la frase finale, brusca come lo spegnersi delle luci: la differenza d’età creerebbe un abisso, meglio qualcuno più vicino in anni. Non fu crudeltà; fu quasi dolcezza, come il gesto di un sipario che si chiude per risparmiare al pubblico una recita senza promessa. Provai delusione, sì, ma anche sollievo. Perché in quelle parole c’era una verità rara: la storia non avrebbe avuto seguito, e io non sarei rimasto in attesa di un bis che non sarebbe mai arrivato. La chiarezza, nella sua nudità, fu l’unico dono scambiato. Un dono che libera, anche se conclude.

Poi cadde la frase definitiva, senza appello: la differenza d’età sarebbe stata un baratro, bisognava cercare altrove. Non era crudeltà, ma giustificazione cortese. Il sipario si chiuse, proteggendo ciascuno dall’illusione di un secondo atto. Avrei potuto provare amarezza, ma riconobbi in quella frase una franchezza rara. La chiarezza non porta felicità, ma evita i miraggi. Non era né CarmenCyrano: nessun dramma abbagliante, solo una lucidità nuda. E quella lucidità, paradossalmente, fu l’unico dono della serata.

Infine pronunciò la sua sentenza: la differenza d’età sarebbe un abisso, meglio trovare qualcuno più vicino. Non fu cattiveria, ma cortesia travestita da sincerità. Il sipario calò, impedendo allo spettacolo di trascinarsi in un atto vuoto. Sentii delusione, certo, ma anche sollievo. In quella chiarezza c’era un dono: nessuna illusione, nessuna attesa vana. Non una tragedia shakespeariana, non un’opera compiuta, ma la consapevolezza che certe storie nascono già concluse. La chiarezza — dura ma limpida — fu l’unico applauso concesso alla fine.

Coda

Ci sono sipari che calano troppo presto,
ma ci salvano da silenzi più lunghi.

Meglio un sipario netto
che un teatro di illusioni.

Un sipario caduto
vale più di un inganno prolungato.